ANTICA ROMA – tra Storia e tradizioni

LA DECIMA LEGIONE – Panem et Circenses

Corre l’anno 882/883, il 68/69 dell’era cristiana: l’anno più lungo di tutta la storia dell’Antica Roma, che vede la morte cruenta di quattro imperatori.
Anno di violenze e congiure, è anche il momento in cui il Cristianesimo, approdato a Roma insieme a molti altri culti orientali, mette i primi germogli, pur tra sospetti, speranze e persecuzioni.

Marco Valerio, tribuno della Legione X, di stanza in Giudea, è inviato a Roma dal suo superiore, il generale Vespasiano, per valutare e riferire sulla situazione: l’Urbe sta precipitando in quella che sarà chiamata: Anarchia Imperiale.
Costretto l’imperatore Nerone al suicidio, in ogni parte dell’Impero – Spagna, Giudea, Germania – le Legioni premono per affidare la porpora imperiale al proprio Generale.

Marco Valerio si troverà coinvolto in vicende che avranno come protagonisti gladiatori che si sfidano nelle arene, pretoriani e senatori pronti a passar da una corrente politica all’altra, liberti arroganti, filosofi, schiavi, vestali, prostitute, giovanissimi banditi…
Intreccerà una bella storia d’amore con Lucilla, scampata alla carneficina seguita alla congiura Pisone contro Nerone, figlia di uno dei congiurati; per lei, Marco Valerio arriverà perfino a sfidare Cesare, di cui da ragazzo era stato compagno delle giovanili bravate.

Uno spaccato di vita nella Roma d’epoca imperiale, in cui il potere sul popolo si esercitava assicurandogli: PANEM ET CIRCENSES – Pane e Circo.

Marco, il Tribuno - vol. I°

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PRESENTAZIONE


Maria Pace
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3 giorni fa

    

    Claudio Pirillo
    Claudio Pirillo

    Claudio Pirillo "Bravissima, Maria. Scrivere sulla gloriosa DECIMA "Fretensis" non è impresa da poco, neppure "romanzando". Auguri di ogni splendido successo, carissima. " 2 ore fa
 

A TAVOLA CON GLI ANTICHI ROMANI

“Libi tibi - Marco aprì il banchetto e versò gocce di vino in onore degli Dei - Bacco consenta numerose coppe!”
Una schiava gli pose sul capo una corona di foglie e fiori che legò con un nastro dietro la nuca; anche lei portava sul capo rose e foglie intrecciate: un grazioso ornamento che doveva tenere lontano la sbornia. Nessuno ci credeva, naturalmente, ma quelle ghirlande appagavano il senso estetico e tanto bastava.
Tutti i convitati ebbero le loro ghirlande e tutti furono pronti a “lavorare di mascella”, come, poco prosaicamente, diceva Lucilio.
Arrivarono le prime portate: uova servite con molluschi e frutta ripiena; seguirono altri antipasti e un arrosto di vitello con funghi stufati al coriandolo. Fu la volta di galletti alla salsa di laserpizio, dall’odore nauseabondo, ma di straordinario successo sulle tavole dei più ricchi. Il vino non mancò: tante coppe da mandare giù; tante quante erano le lettere contenute nel nome dell’ospite.
“I tuoi cuochi sono veramente bravi, Marco.” esordì Silone.
“Ne sono lusingato. - rispose Marco - Hanno voluto compiacere questo povero soldato che dei piaceri della tavola non aveva più il ricordo. Assaggia questo.” disse e spedì al tavolo del liberto un cosciotto d’oca.
Affrancato     attraverso una   congrua manumissio,        Silone era riuscito con spirito di iniziativa a farsi un buon patrimonio, ma era rimasto fedele e assiduo frequentatore della casa dell’antico padrone.

Pur non avendo diritti politici, i liberti erano uomini liberi a tutti gli effetti. Nerone e soprattutto Claudio, a costoro avevano affidato importanti cariche amministrative, tanto da formare un vero corteggio intorno alla figura del sovrano. Erano potenti e influenti; potenti al punto da permettersi di trattare i padroni con irriverenza e perfino arroganza, tanto da costringere il Senato a discutere di provvedimenti da adottare.

“Non avete ancora assaggiato questo porcellum hortolanum. - interloquì il senatore Cimbro Appio, buongustaio e frequentatore abituale della tavola di Marco, indicando il grande vassoio che due schiavi stavano appoggiando al tavolino centrale attorno a cui erano collocati i lettini - Verdure di prima scelta e liquamen di prima qualità, per questo porcello fatto ingrassare al punto giusto!”
Liquamen, salsa tipica, ottenuta dalla macerazione del pesce.
Con un cenno Marco ordinò di servirglielo per primo e Cimbro non si fece pregare e poi trasferì una parte dal suo piatto a quello di un giovane seduto su uno sgabello ai piedi del suo lettino.
“Prendi, Crispino e dimmi il tuo parere su questa salsa deliziosa.”
Crispino, giovane poeta, era giunto a Roma da poco con una lettera di raccomandazione per farsi annoverare nella clientela della famiglia Appia. C’erano altri giovani seduti su sgabelli, l’effeminato Fausto,  l’insofferente Sorano, l’astuto Casperio, e ancora altri, tutti clienti al seguito dei patroni.
“Anche il vino è ottimo!”
Lucilio sollevò la coppa poi la tese alla schiava, una giovane tracia assai avvenente, bionda e procace, accorsa a sistemargli sul lettino la augusti clavia, la veste che con l’ anulus aureus e il cavallo, costituivano il distintivo dell’Ordine Equestre di cui faceva parte. Familiarizzare con le schiave era d’obbligo durante i festini ed era un piacere a cui il filosofo non avrebbe mai rinunciato.
“Orsù, belle. – diceva, rivelandosi anche seguace di Epicuro - Correte tra le braccia di Lucilio e scacciate le sue malinconie.”
Un invito che compiacenti schiave non si fecero ripetere: quelle non impegnate  a vezzeggiare Milos, l’ospite più celebrato,  letteralmente soffocato dalle loro effusioni.
Marco Valerio, che da buon padrone di casa si preoccupava che nulla mancasse  a ognuno dei suoi ospiti, sorrideva indulgente.
“L’amico Lucilio- pensava- deve aver proprio ragione: quel trace è proprio un “puellarum suspirium”. Varrà la pena, forse, fare il tifo per lui ai giochi gladiatori.”
Quasi gli avesse letto nel pensiero, una delle ancelle gli  domandò:
“Dicono che affronterai il toro più cattivo che si sia mai visto.”
“Sarà una sorpresa.- rispose per lui il lanista - Ho promesso a Cesare uno spettacolo che resterà negli annali gladiatori.”
Crescens era il lanista più noto non solo a Roma, ma in tutto l’impero. Gli uomini della sua “scuderia” erano i migliori atleti. Per di più, era anche onesto, non come certi impresari che promettevano campioni ed offrivano brocchi. Nessuno  dei  munera, committenti dei giochi, si era lagnato mai dei suoi atleti.
“Non finisca come Proculo, incornato dal suo primo toro! – interloquì Cimbro, tracannando con indifferenza – Sia la mia ultima coppa se mento affermando che è il miglior vino che il mio palato abbia gustato mai. Neanche il vino di Bacco è  così inebriante!”
Cimbro apparteneva a quel patriziato, l’hordo senatorius. che, pur restando il ceto più elevato tra i cittadini di Roma, era avviato verso una progressiva decadenza.
“Vuoi suscitare l’ira di Bacco?” lo redarguì qualcuno.
”Oh, no…no! Quand’anche sia convinto che se gli Dei tutti precipitassero dall’Olimpo solo Bacco vi resterebbe…”
“Cimbro! Cimbro! - lo ammonì Lucilio - Non burlarti degli Dei!”
“Per Nettuno! - il vino scioglieva la lingua - Non voglio sfidare gli Dei, né burlarmi di loro. Voglio invece invitarli a questo banchetto. Più che nettare è questo vino!.. Ne convieni anche tu, Calpurnia?”
“Oh, Cimbro! - ridacchiò la donna - Sei irriverente con gli Dei!”
“E perché mai? – insisté quello - Ti sei mai chiesto perché i nostri padri abbiano inventato un Dio unico per ladri e mercanti?”
“Cimbro! Cimbro!... “
Non più giovane, giunonica, le labbra petulanti e strette, la donna
cercò di ammansirlo.
Vestiva con ricercatezza ed eleganza; sulla tunica di porpora ricamata in oro ostentava una palla, un mantello verde di preziosa sete. Era sommersa da gioielli e ammantata di un profumo dolciastro e penetrante.  Sporgendosi per prendere un fico da un cesto fuori del circolo dei letti, raccolse la lunga collana che le pendeva dal collo, un raffinatissimo gioiello depredato in terra lontana: Dacia, forse, Dalmazia o Bretagna.
“Vengono dalla Giudea questi fichi?” domandò a Marco Valerio, abbandonandosi languida sul petto del compagno.
“Sono molto gustosi.”  Marco assentì col capo; guardandola pensò che da quando la moda permetteva alle donne di prender posto sdraiate accanto agli uomini invece che sedute, i banchetti finivano sempre per trasformarsi in  orge.
 

ESTASI

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............

Si allontanarono verso l’interno della casa, la mente ancora occupata dal pensiero della sorte della liberta di Nerone, ma con nuove prospettive di gioia e felicità. Si ritrovarono da soli e Lucilla, coperta unicamente dallo sguardo innamorato di Marco.
Il giovane le si avvicinò piano. Lentamente. Assaporando l’attimo meravigliosamente prossimo di un frutto da cogliere. La guardava con tutta la sessualità accesa, l’olfatto eccitato: l’aveva desiderata fisicamente fin dal loro primo incontro sul Palatino. Un desiderio che lo aveva quasi ossessionato e spinto altrove: un desiderio mai soddisfatto con alcuna altra donna, però. Un desiderio sempre più potente. Più di ogni altra sensazione ed eguagliato solamente dall’amore che, per lui, era sfaccettatura dello stesso sentimento.
Anche lei lo guardava. A piedi nudi, le mani tremanti che reggevano un telo di lino e con dentro gli occhi qualcosa che Marco non capiva. Le fu vicino. Lei continuava a fissarlo con “quello” sguardo. Lui continuò ad accarezzarle le spalle nude poi le cinse la schiena; il desiderio gli premeva dentro prepotente.
Lucilla si sollevò sulla punta dei piedi; con un braccio gli circondò il collo e con l’altro continuò a reggere il lembo del telo che copriva ormai così poco del suo corpo, ma nascondeva tutto il suo pudore che brillava intenso, rannicchiato negli occhi azzurri; Marco tremava d’emozione, mentre si chinava a cercare quella curva eccitante  tra la nuca e il collo; l’anima e i sensi, imprigionati dall’odore di lei.
“Marco, io..” cominciò lei con le palpebre abbassate.
Marco comprese.
“Hai paura? - domandò - No!... Non devi averne, tesoro mio. L’amore è una cosa dolcissima!” la rassicurò rituffandosi nel suo sguardo e prendendo possesso dei suoi sensi e del suo pudore. Abbassò il capo e la bocca affondò ghiotta sulla nuca e sul capo; il telo scivolò a terra; il tripode, poco discosto, ardeva crepitando. Con le mani la percorse: la schiena, i fianchi, la vita. Si insinuò tra curve e pieghe. Lentamente. Leggermente. Dolcemente.
Lei sentiva liquido fuoco vivo attraversarla tutta e l’eccitazione consumarla: il contatto con la diversità di lui. Così dura. Così terrificantemente eccitante. Poi la bocca di lui, che scivolava lungo il collo, la gola per fermarsi sul seno: “Oh!...” gemette.
Vinto da quella resa voluttuosa e dall’ardore del proprio temperamento, Marco piegò un ginocchio e la trascinò a terra con sé; con l’altro ginocchio, piegato, la sostenne; il soffio ansante delle sue labbra sfiorava i capelli di lei.
Lucilla cercò di trattenere gli ultimi brandelli di pudore, ma lui sorrise con inusitata dolcezza in tanta eccitazione. Prese la mano di lei e ne guidò le dita tremanti sotto la tunica slacciata. La pelle eccitata fremette. La bocca, sempre affondata nella dolcissima curva tra collo e spalla, impazzì di piacere. Premette più forte.
Un brivido percorse Lucilla. Così profondo da darle la sensazione di perdere conoscenza e vacillare. La sua mano smise di carezzarlo; le dita  si contrassero, le unghia quasi si conficcarono nella schiena di lui. Si accorse di essere distesa per terra, al bordo del letto. Supina.
Marco, a torso nudo, era sopra di lei. La tunica di lui era  per terra accanto al suo telo di lino, ma lei ne vedeva solo un lembo, segmentato di rosso. Vedeva l’aria rilucere del riflesso del tripode e il bel volto di lui trasfigurato dall’eccitazione e dalla passione. Chiuse gli occhi e sentì le labbra di lui che cercavano la sua bocca; le sue mani continuavano a percorrerla.  Rispose al bacio.
Nuovamente Marco prese la sua mano per guidarla su di sè. Nuovamente lei fremette, mentre imparava a conoscere quel corpo che amava e in cui era concentrato tutto il mondo, che andava scomparendo intorno a lei: sempre più piccolo e stretto, fino a ridursi a quel solo essere adorato.  Le pareva, mentre con le dita scorreva e scopriva la pelle eccitata di lui, i rigonfiamenti, i muscoli, gli incavi, di conoscerlo già: quante volte aveva accarezzato quel corpo facendo l’amore con lui con la fantasia.
Un’altalena di emozioni, un groviglio di sensazioni che elevava e inabissava e i respiri ora corti, ora lunghi. Pian piano i respiri si fecero calmi, placidi. Fino a scivolare all’unisono lungo un tempo immobile. Come trasognata, Lucilla sentiva il capo di lui fremere contro la sua spalla, il suo petto ansante, le sue mani sulle gambe. E Marco sentiva  le braccia di lei intorno al busto, le gambe avvinghiate alle sue, le dita accarezzargli dolcemente la schiena. Ancora cercò le labbra di lei, poi, quando le labbra la lasciarono per saziarsi altrove, le vide reclinare il capo dolcemente di lato. Completamente arresa. Completamente abbandonata. Completamente rilassata. Rilassati i muscoli delle gambe, rilassato il grembo, rilassata la pelle intorno all’inguine.
Un   dolore acuto le strappò    un gemito, poi     una sensazione di
sconfinato piacere che mutò in eccitato languore i gemiti di dolore e che la trasportò in alto, verso vette sconosciute e immacolate, in un tempo immobile, insieme a lui, in dimensione irreale e magica.
Giacquero, l’una sull’altro, per riemergere storditi e appagati.
(CONTINUA)

MILOS il Gladiatore - VOL. II

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Correva l’anno 882-883. il 68-69 dell’era cristiana: l’anno più lungo di tutta la storia dell’Antica Roma, che vide la cruenta fine di quattro imperatori.
Anno di violenze e congiure, la “Capitale del Mondo” fu campo di battaglie private e pubbliche; teatro di complotti ed intrighi: pretoriani e senatori, legionari e gladiatori, filosofi e letterati, schiavi e liberti, vestali e prostitute, maghi e fuorilegge.
Fu anche l’anno in cui il Cristianesimo, approdato a Roma assieme a molti altri culti orientali, metteva i primi germogli, pur tra sospetti, speranze e persecuzioni.
Intrappolati nelle maglie delle tante manovre civili, politiche e militari, si trovarono anche il tribuno Marco Valerio e il centurione Fabio, il filosofo Lucilio e il  pedagogo Cleonte, i gladiatori Milos e Seilace e il taverniere Trebonio, la vestale Ottavia e la prigioniera di guerra Tracia, il piccolo fuorilegge Aquilinus e la giovane ereditiera Livilla, l’ostaggio Lucilla e tanti altri ancora.
Uno spaccato di vita nella Roma d’epoca imperiale 
Testo

Brani tratti dal libro

LA VIOLENZA

Calvia era una donna ferita nell'orgoglio e si sa che si può perdonare una cattiveria, ma non un'offesa all'orgoglio.

"Prendetela! - ordinò ai pretoriani prima di voltarsi per uscire - Prendetele tutte e due. Sono vostre!"

Lo sguardo di Lucilla seguì terrorizzato il pretoriano che richiudeva la porta alle spalle della donna e si faceva avanti. Seguì con raccapriccio il sorriso da ebete che gli istupidiva il volto, il lampo inequivocabile che gli incendiava lo sguardo mentre con gesti eccitati si toglieva l'elmo.

"La voglio prima per me. - udì la voce del compagno altrettanto eccitata - Dopo potrai farne ciò che ti aggrada!"

"Non mi serve la ragazza. - rispose l'altro, freddo, gelido, composto - E' troppo vecchia per me. Io voglio la piccolina!"

"No! - Lucilla scosse il capo inorridita; la pietra le tremò sotto i piedi; il soffitto parve venirle addosso - E' ancora una bambina..." riuscì a dire con voce  soffocata.

Quello però l'aveva già raggiunta e le strappava Keriat dalle braccia; elmi, spade e corazze giacevano sparsi per terra.

Muta di terrore Keriat barcollò; l'uomo la sostenne. Un gesto quasi affettuoso. Paterno.

"Vieni, piccolina. - diceva - Dopo ti farò un bel regalo. Togliamo questi vestiti. Ti scalderò io se avrai freddo..."

Le tolse i vestiti con gesti pacati, amorevoli; le accarezzò i capelli, le spalle, i piccoli seni in
sboccio.

"Lasciala andare. - urlò Lucilla - E' ancora una bambina. Lasciala..."

Si lanciò in avanti, ma una mano l'agguantò. Forte come una morsa. Una stretta implacabile. Sentì sulla faccia l'alito pesante dell'uomo, il suo respiro affannoso.

Non provò neppure a svincolarsi: un urto e si trovò distesa per terra e l'uomo sopra di lei.

Era pesante.

Sentiva il suo largo torace schiacciarla e impedirle di respirare. Tentò, ma inutilmente, di liberarsene, poi il sapore delle sue labbra bavose sul collo, sulle guancia e sulle labbra l'annegò di disgusto.

Aprì la bocca e affondò i denti in quel labbro.

Il pretoriano dette in un grido di dolore, ritrasse il capo e sollevò una mano, che si abbattè con inaudita violenza sulla sua bocca.

"Brutta cagna rognosa! - lo udì imprecare - Ti insegnerò io a mordere!"

Lucilla sentì il sangue scorrerle lungo le labbra e il mento e nuovamente la bocca e la lingua di quell'essere immondo percorrerla e insozzarla di bava e saliva mischiate al proprio sangue;
l'urlo di Keriat le lacerò le orecchie e il cuore e un'angoscia disperata le lacerò lo spirito.

Poi, d'improvviso, uno strazio fisico!

Le impediva fin'anche di respirare, come se una lama cercasse di affondare nella carne. Capì che l'uomo stava penetrando dentro di lei.

Spalancò gli occhi atterrita.

Dal profondo della mente partì un puntino doloroso. Una ferita che espandendosi scatenava nel cervello un ribollire tumultuoso di paure e travagli che il cervello stesso non era capace di contenere. Finalmente l'urlo. Un urlo che era retaggio di ataviche paure represse per generazione e che le sconvolsero la mente.

Quand'ecco, di colpo, un volto di donna, dolce e sorridente prese forma in quell'etra maligno e nemico. "Mamma!..." urlò.

Era la prima volta che sua madre "tornava" da quando era morta, quasi quattro anni prima.

Lucilla scosse il capo e la "visione" s'appannò; lentamente si adombrò, fino a a diventare luce
trasparente.

Svenne!

Aveva raggiunto quel confine oltre cui la misericordia divina non permette di andare e le risorse fisiche si esauriscono.

Non si accorse della porta che si apriva e di qualcuno che sollevava di peso lo stupratore scaraventandolo di lato.

Quando rinvenne, in una bruma di paure e vergogne, del soccorritore sentì solo la voce, poichè continuava a tenere gli occhi chiusi in un silenzio profondo rotto solo da respiri affannosi.

Non sentiva più neppur le grida di Keriat.

Fu proprio questo a scaraventarla fuori della bruma delle proprie angosce: quel silenzio era più terribile delle urla.

"Cosa stai facendo, animale?" sentiva la voce del soccorritore; una voce contrariata, ma sconosciuta.

"Di cosa ti impicci? - quella dello stupratore - Calvia Crispinilla in persona ha affidato costei alle mie cure!"

"Imbecille! Quando Cesare lo saprà ti farà scorticare vivo!"

"Per tutti gli Dei!... Perchè?"

"Perchè costei è la moglie del tribuno Marco Valerio Flavio, animale! Cesare vuole servirsene per trattare con lui e il generale Vespasiano, il Legato della Giudea. Finirai sotto la scure del boia!"

"Maledizione!" imprecò lo stupratore tentando di darsi contegno. Intanto guardava la sua vittima e faceva l'atto di tirarla su dal pavimento. Con uno spintone il centurione lo ricacciò in fondo allo stanzone, poi si voltò verso Lucilla:

"Che cosa ti ha fatto questo animale, domina. Ha abusato di te? - la voce era compassionevole e gentile, ma Lucilla non rispose: era umiliante dover spiegare. L'altro insistè - Hai capito cosa ti ho chiesto, domina? Questo animale ha abusato di te?"

Lucilla continuava a tacere e per non subire il suo sguardo abbassò il capo

Il primo irrompere della vegnogna al cervello fu un vortice impetuoso che andò dilagando fino nelle più remote e nascoste pieghe dell'animo Come una folgore l'aggredì al cuore, coinvolgendo
nervi, ossa, pelle: la voce e lo sguardo del centurione le davano la misura dell'offesa subita.

L'assalì il bisogno di nascondere l'offesa e la vergogna, il bisogno di nascondersi in un luogo buio, il bisogno di nascondersi a quell'uomo, che pure l'aveva sottratta alla violenza.

L'assalì il bisogno di morire.

Ma non poteva fare nulla di tutto ciò e non trovò altro rimedio che conficcarsi le unghia nella carne, ma un gemito la strappò a quell'angoscioso smarrimento: Keriat.

Giaceva in un angolo, svenuta, seminuda e sanguinante. Dimenticò se stessa; si trascinò per terra e la raggiunse. Si chinò sopra di lei. La chiamò: "Keriat!"

Anche il centurione si accostò alla piccola; anche lui si chinò. La contemplò in silenzio.

"Che scempio!" esclamò.

(continua)

brano tratto dal libro di Maria Pace: "LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses"

se qualcuno volesse conoscere la storia di questi personaggi, può richiedere il libro direttamente all'autrice oppure:

www.Google book

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www.lulu. book

Testo

Tito Flavio, il Console

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Se dicessi che uno dei protagonisti di questa avventura è un sogno? Potrei aggiungere che l’altro attore in scena è l’incubo. Forse, sono le due facce della medesima medaglia o forse due esseri diversi, all’alba di un epoca di cui si sono dimenticate le gesta.

Ho appena terminato La decima legione di Maria Pace, che al momento si compone solo di due volumi, ma presto potremo arrivare al terzo e personalmente lo aspetto trepidante.

Chi mi conosce, sa che ho una formazione archeologica, quindi la storia e più precisamente quella romana, vive in me come fosse linfa vitale.

Potete quindi immaginare, che se questo libro mi è piaciuto, è la testimonianza che si può scrivere un romanzo storico senza dover stravolgere la Storia.

Vi parlavo di un sogno, questo diverrà il filo del destino che collega tutti i personaggi di questa storia, ognuno di loro ne ha uno proprio ma sarà la forza motrice della storia, se non ci fosse, nessuno di loro si sarebbe incontrato.

In principio era Roma, l’enorme città sogno, croce e delizia di molti uomini. Alcuni l’hanno persino governata, anche se in modi che i posteri non dovrebbero giudicare a cuor leggero: scomoda e la testa che reca la corona, flebile è la voce di colui che tutto ha ma nulla possiede.

Ci fu l’abbaglio di Nerone. Una Roma ellenistica, piena di arte, in cui la guerra è una trivialità di cui si occupano gli altri. La sua preghiera si trasformò presto nel terrore di non essere amato, non essere compreso. Lui rispose dando panem et circenses conditi dalla paura.

Una preghiera può essere una maledizione.

Posso sentire Atte cantare: Ti Prego Nerone cedi la tua corona e guarda il sole che splende! Probabilmente avrebbe dovuto farlo.

La città bruciava ma in un gioco di specchi distorti, lui vedeva una Roma migliore mentre Roma vedeva che l’imperatore non la comprendeva.

Dopo di lui ci furono sogni di morte, sogni rossi, pieni di tensione e di urla. L’unica a regnare in quel seggio vacante era solo l’incertezza dei suoi abitanti.

Roma se ne stava seduta davanti al portale del tempio di Giano senza sapere da che parte voltarsi.

Tra tutti questi fili vive la storia della Decima legione.

Marco non sapeva di avere dei sogni finchè non li incontra negli occhi di Lucilla, per la loro realizzazione potrebbe rischiare la morte ma è disposto a giocare col fato.

Lucilla vede nel sonno, il velo stellato di una candida vestale. Solo quel velo la porterà a poter stringere a sè il suo Marco.

Attorno ai due protagonisti si costituirà davvero un manto stellato. un manto fatto di amici e compagni che vivranno e soffriranno con loro. Roma è il sogno e l’incubo in cui vivono, non possono fuggirla e non possono odiarla. Lei è ovunque, anche nella terra straniera in cui sono nati quel nuovo profeta e il liberto del nuovo imperatore Vespasiano.

Ci imbattiamo nel problema della fede. La religione in una città dove regna l’assolutismo ma non può comprendere la fedeltà ad un solo re.

Lucilla si ritrova a credere per tutti. Si affida al suo animo candido e nonostante la sofferenza, si siede ai piedi della città, le benda i piedi e le canta canzoni di amore lenendole le ferite provocate dalle caligae e dai rovi della cupidigia.

Maria Pace ha fatto un lavoro enorme di ricerca di un periodo storico, che parte dal termine della dinastia Giulio-Claudia e l’inizio della Flavia.

Tutta la storia di quegli anni è ben documentata e vissuta da ogni anima che si trova coinvolta in quello che è stato, come ho detto, il sogno e l’incubo di molti.

Nonostante l’evidente impronta didattica dei due libri, lo stile si adatta benissimo ad una lettura “profana”, non dovete sapere cosa storicamente accadde, lasciatevi trasportare da Maria e ascoltate il suono della Decima legione sui selciati di marmo, tra le onde del mediterraneo e davanti alle mura di Gerusalemme. Ascoltate le urla di una città ostaggio di volontà spesso contraddittorie a loro stesse e saprete che siete a Roma.

Brani tratti dal libro