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    VISCHIO ed AGRIFOGLIO - Racconti di Natale

     

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    VISCHIO ed AGRIFOGLIO - Racconti di Natale

     

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    Testo

    IL CIGNO

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    E' ARRIVATA LA BEFANA

     

     

    E' ARRIVATA LA BEFANA

    "E' tornata la Befana
    a cavallo di una scopa
    vola senza far rumore
    nella notte nera nera.
    Sulle spalle ha tanti pacchi
    coi regali per i bambini:
    bambole, treni e biscottini.
    Ma di più lei sa donare:
    una gioia che non si può scordare."

     

    La Befana è tipica figura del folklore italiano legata alle festività natalizie.
    Le sue origini sono molte antiche. Risalgono a tradizioni magiche-rituali pagane legate alla fine dell'Anno Solare (solstizio d'inverso) ed all'inizio dell'Anno Lunare, finite poi col fondersi in elementi folkloristici e cristiani.

    Nell'antichità, durante la dodicesima notte del solstizio d'inverno, si celebrava il Rito della morte dell'Anno Vecchio e della nascita del Nuovo Anno. Si credeva che in quelle dodici notti, spiriti femminili e Divinità Minori legate alla Madre Natura, guidati dalla Dea Lunare Diana,volassero sui campi seminati per propiziarsi il futuro raccolto.
    Quei rituali, però, furono severamente condannati dalla Chiesa, ma non si riuscì a cancellarli dalla memoria popolare e finirono pian piano per convogliare ed inglobarsi (soprattutto durante il Medio Evo) in nuove pratiche e riti che condussero alla istituzione ed alla figura della Befana.
    Questa, sotto l'aspetto di un fantoccio rappresentava il Vecchio Anno da distruggere e bruciare, per assumere, attraverso riti propiziatori, l'aspetto del Nuovo Anno, giovane e rigoglioso.
    Il suo aspetto, perciò, era quello di una vecchia brutta e cenciosa, gobba e sgraziata, dal lungo mento aguzzo e dal naso adunco.

    La Befana arriva volando su una scopa attraverso il cielo e si posa sui tetti per entrare nelle case attraverso il camino, simbolo dell'antico focolare, luogo sacro e punto di congiunzione fra cielo e casa.

    Nella tradizione moderna la Befana è legata alla leggenda dei Re Magi in viaggio verso la capanna di Betlemme.
    La leggenda narra che i Magi, perso l'orientamento, abbiano bussato alla casa della Befana chiedendo indicazioni per giungere a Betlemme e invitandola ad unirsi al gruppo.
    La Befana indicò la strada, ma si rifiutò di seguirli.
    Subito dopo, però, pentitasi, salì su una scopa e volò in cielo cercando di raggiungerli.
    Non riuscendovi, decise di fermarsi in ogni casa a chiedere notizie ed a lasciare un dono, nella speranza di incontrare il Divino Bambinello. E da più di 2000 anni continua a farlo.
    I suoi doni, però, non sono uguali per tutti: giochi e dolcetti per i bambini buoni ed ubbidienti e carbone per quelli disubbienti e monelli... mah!

    FILASTROCCA della BEFANA

    La Befana vien di notte
    con le scarpe tutte rotte
    con le toppe alla sottana
    viva viva la Befana

    La Befana vien di notte
    attraversa tutti i letti
    porta bambole e confetti
    viva viva la Befana.

     

     

     

     

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    IMMAGINI senza commento

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    ... alla fine della giornata...

    ... sotto i cenci...

    ... alla fine della giornata...

    SOLIDARIETA'

    PELLE D'ASINO

    Pelle d'asino ESCAPE='HTML'

    LA BELLA ADDORMENTATA nel BOSCO

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    LA BELLA e la BESTIA

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    CENERENTOLA

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    CAPPUCCETTO ROSSO

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    CON la BAMBOLA

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    TRILLY e CAMPANELLINO

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    BIANCANEVE e i sette Nani

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    POLLIICINO

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    L'ARCOLAIO

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    NASCONDINO

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    TRA i fornelli della MAMMA

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    IL CARRETTO

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    L'ALTALENA

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    LA COLLANA DI SCHEGGE DI PIETRA

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    *************************
    Mosè si staccò dal collo una collanina di schegge di pietra.
    "Vuoi vedere come trasformo questa collana di pietre in una catena d'oro?" disse al compagno, che lo guardava divertito e scettico.
    "Vuoi farmi conoscere qualcuno dei tuoi trucchetti segreti?"
    "A  te?  Oh no! Tu non hai bisogno di trucchetti, amico. – sorrise l'altro - Ma resta a guardare."
    "Ah,ah,ah! Voglio proprio vedere come farai."
    Il ragazzino si guardò intorno fino a quando i suoi occhi rapaci  non puntarono un uomo accovacciato per terra a gambe incrociate, che offriva le sue ceste di grano e legumi.
    "Ecco il mio uomo. E’ quel contadino laggiù. - disse prendendo l’amico per un braccio - Vieni.”
    "Hai preso un colpo in testa? Non vedi quanto è grande e grosso?”
    "Resta a guardare! - replicò Mosè, puntando deciso in direzione del contadino, poi - Ehi, tu!” lo apostrofò in tono deciso quando gli fu vicino. Questi sollevò subito la testa.
    "Cerchi della farina per farne focaccine dolci e pane profumato, bel ragazzo? Qui puoi trovarla e la puoi portare a tua madre."
    "Sì. Cerco proprio della farina da portare a mia madre. - rispose prontamente il Ratto - Come l'hai capito?”
    Seguì una pausa breve e studiata, durante la quale l’uomo tentò di prendere la parola. Mosè non gliene dette il tempo. 
    “Oh! E’ chiaro! - riprese - Il tuo sguardo intelligente sa leggere dietro la mia fronte. Certo... Sì. Mia madre sarà contenta quando le porterò la farina. Mi chiederà: come hai capito che volevo della farina?  Le risponderò che è stato un giovane assai intelligente a
    capirlo per me. Sì! Mia madre ne sarà proprio contenta."
    "Ma..." tentò ancora quello, alzandosi in piedi e sovrastandolo con l’imponente statura; Djoser, alle loro spalle, seguiva con espressione divertita il monologo dell'amico.
    "Eccoti la mia collana da scambiare con la tua farina. Ascoltami bene, però. Ognuna di queste pietre solleva da un malanno. Osserva questa  lunga e stretta: protegge dal male alla gola. Quest'altra, protegge dal male alla pancia. Prendila e provala su te stesso."
    L'uomo prese la collana. La rigirò tra le mani, spostando lo sguardo dai grani di pietra alla faccia seriosa del piccolo lestofante che domandava:
    "Dimmi... senti male alla pancia?"
    Il contadino scosse il capo.
    "Hai forse male alla gola?"
    L'altro scosse ancora il capo.
    "Ai denti?"
    "No."
     

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    "Forse hai male alla testa?"
    L’altro scosse il capo per l'ennesima volta.
    "Hai visto? Stai bene perché hai nelle mani la mia collana."
    Il contadino provò a muovere qualche riserva, ma la piccola canaglia prima lo rabbonì con le promesse poi lo sconfisse con le minacce:

    "Portando questa al collo - scandì - vivrai senza malanno alcuno. Questi non sono grani di pietra comune, ma  frammenti di pietra divina. Sono schegge di pietra di dimore divine. Se la rifiutassi, rifiuteresti la protezione  e,...  testa, gola, denti…”
    "Ma io la prendo." lo interruppe l'altro, convinto e spaventato.
    "Non ne dubitavo. - esclamò il ragazzo con estrema faccia tosta - La tua intelligenza è davvero assai evidente."
    "Vieni. Vieni." Djoser lo prese per un braccio e lo trascinò via con una smorfia di divertito rimprovero per tanta sfrontatezza.
    Il  Ratto  lo seguì con la grossa cesta di farina sulle spalle; il  suo volto aveva la placidità della superficie di uno stagno.
    "Guarda laggiù." disse subito dopo; il suo sguardo aveva già colpito il secondo bersaglio: un venditore di sandali.
    Stava seduto davanti alla sua bottega; una delle tante. In bella vista, fuori degli usci, erano esposti prodotti d’ogni genere e forma: sandali, fibule, vasi, cinture. I bottegai si davano gran da fare per attirare l’attenzione dei passanti.
    I due ragazzi si avvicinarono e Mosè cominciò la sua sceneggiata. Toccava gli oggetti con fare da intenditore. Li girava e rigirava tra le mani; scuoteva la testa o faceva gesti di gradimento.
    Il mercante abboccò immediatamente e si fermò alle loro spalle.
    “Una sacca per i tuoi viaggi? – domandò - Una cintura o…”
    "Sono solidi i tuoi sandali?" domandò il ragazzo.
    "Metteranno le ali ai tuoi piedi e ti porteranno dove varrai."
    E qui, l'impareggiabile piccola canaglia mise in atto lo straordinario talento acquisito durante la sua pur breve vita randagia: la capacità di confondere il prossimo.
    "Mi piacerebbe raggiungere la mia meta." cominciò.
    "Ecco  i sandali adatti.- rispose gongolante il mercante, convinto di averlo fatto abboccare all'amo del desiderio – Sono di solida corda di canapa, mio signore." aggiunse passando alla lode.
    "Hhhhuuu..." il Ratto rispose con un incomprensibile verso.
    "Chiunque li vedrà ai tuoi piedi desidererà averli ai propri."
    "Devo prima liberarmi del mio peso." Mosè accennò alla cesta.
    "Di quella posso liberarti io." insisteva l’altro.
    "Sarebbe un buon affare per te, mercante, ma non per me. Questa farina viene dai magazzini reali. E' cibo per signori... ma io non ho bisogno di cibo. Io ho bisogno di sandali."
    "E sandali, io voglio darti." abboccò l'altro.
    "Così sia! Anche se con questa farina potrei comprare stoffe di lino pregiato, io la cedo a te per questi sandali."
    Mosè lasciò la farina e prese i sandali; prima che il mercante potesse rifarsi i conti, si allontanò veloce.
    Fu subito fermato da un venditore di profumi; un caldeo a giudicare dai suoi discorsi.
    "Tendete  il naso, gente.    Neanche il profumo che attirò  Ishtar verso l’altare, al Tempio di Babilonia, era così dolce."
    Il Ratto si fermò; tese il naso verso l'ampolla.
    "Oh! - recitò - Quello che dici è vero. A che mi serve andare fino a Babilonia con questi sandali per comprare profumi ed unguenti alla mia bella, se quel dolce profumo è già qui?”
    “Tu sì, che hai naso, o giovane signore.” fece l’altro.
    “Allora prendi, mercante. Questi sandali serviranno a te per tornare alla tua casa lontana. A me il profumo."
    Lo scambio fu presto fatto.

    Prima che il mercante si riavesse dallo sconcerto, Mosè afferrò Djoser, non meno sconcertato, per un braccio e lo trascinò via con sé.
    Si fermò subito, preso tra due fuochi: un venditore di canne e una venditrice di ventagli. Tentato dalla bellezza della ragazza e dalla sua voce suadente, che decantava il bel ventaglio di piume di pavone e lo stesso pavone, il Ratto, però, finì a contrattare la canna da passeggio.
    Un'ampolla  di profumo per una canna da passeggio dall'impugnatura d’argento finemente scolpita: un non facile scambio!
    "Scegliete tra queste canne per le vostre passeggiate sul Nilo." gridava il mercante.
    "E' un bell'oggetto!"  L'attacco ebbe inizio.
    "Tu sei fine intenditore, bel ragazzo.” disse il mercante.
    "Sì... Ma... Hhhh!..." il piccolo tossì, sospirò, squadrò la sua "vittima" da capo a piedi, poi lanciò uno sguardo alle canne bene allineate per terra. Il mercante abboccò.
    "Non sai deciderti, eh? Sono tutte belle. Vero?" gongolò, precipitando nella rete con un sorriso compiaciuto.
    "Belle. Sì! Senti questo profumo. – Mosè gli mise l'ampolla sotto il naso - Occorre andare fino a Babilonia per trovare simile fragranza. Le tue canne, invece, a decine, si possono trovare nel quartiere dei fabbricanti di mobili. Oh! Per due o forse tre canne, potrei cederti questa divina essenza, Non vedo la mia bella da tempo e questo profumo la getterà nelle mie braccia."
    Lo sguardo del giovane mercante, un po’ vanitoso ed esibizionista, mostrò immediato interesse per l’ampolla.
     

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    "Dici che questo profumo potrebbe spingere una ragazza nelle braccia di un giovanotto?"
    "Credi che sia io a dirlo? Certo che è così!"
    "Si potrebbe fare lo scambio con due canne. Dammi la fragranza e prendi due canne."
    Il Ratto prese due canne e cedette il profumo.
    "Ecco  due canne a cui potrete appoggiarvi quando passeggerete con la vostra bella nei boschetti di Men-ank o di Get-Sut. Le ragazze che vi vedranno passeggiare diranno: come vorrei appoggiarmi a quelle canne e sospirare nei boschetti." prese a gridare; qualcuno  guardò, ammirò, contrattò, ma Mosè aveva già scelto il malcapitato su cui porre gli occhi rapaci: un gioielliere.
    "Se fossi una ragazza impazzirei di gioia di fronte a queste meraviglie." esclamò, fingendosi estasiato davanti a spille, anelli, collane; al suo fianco Djoser seguiva muto la scenetta.
    "Non sei una ragazza, ma avrai una sorella, una madre o un'amica a cui donare una di queste gioie." esordì il mercante, ignaro della trappola di parole in cui si stava per cacciare.
    "La mia promessa mi aspetta nella casa di suo padre, dove sto per farle visita. Non ho avuto ancora il piacere di conoscerla. Siamo ancora troppo giovani, io e la mia bella."
    "Quale occasione migliore per presentarsi a lei con un gioiello.” "Un paio di orecchini d'oro... forse."
    "Un paio di orecchini d'oro." ripeté sorridendo l'altro.
    "Per ora ho comprato due canne da passeggio per suo padre."
    "Due canne per il padre e niente per la figlia?"
    "Sono talmente belle che vorrò tenerle tutte e due. Potrei cederne una per un paio di orecchini, ma non vedo orecchini degni dello scambio. Le mie canne sono troppo preziose."
    "Non  vedi orecchini degni di scambio? - ripeté il mercante un po' indispettito  dall’incompetenza del suo interlocutore - Queste due gocce di corniola imprigionate in un cerchio d'oro non ti sembrano degne di ornare il lobo della tua bella?... E questi  due turchesi? Non sono più luminosi della Celeste Nut? Non  potrebbero degnamente ornare le orecchie di una graziosa ragazza, mio giovane signore?" continuava il mercante, ormai in trappola.
    "Le due gocce di corniola." disse il ragazzo.
    "Così sia! - si arrese l'altro - Due orecchini per una canna."
    "E' il miglior affare della tua giornata, mercante, ma il mio è il cuore  di  un  innamorato."  Sospirò Mosè  prendendo   gli orecchini e tendendo una delle canne, poi si allontanò rapido.
    "Adesso cerchiamo una collana d'oro."
    "Pensi per davvero di scambiare quegli orecchini con una collana?”
    "Certo! Cerchiamo qualche ladruncolo."
    Ladri in azione e spacciatori di refurtiva non mancavano mai nei mercati, nonostante le guardie e le loro attivissime verghe. Mosè individuò immediatamente in quella marea di gente un esemplare appartenente alla sua stessa specie. Era un giovane sui venti anni, alto, magro e coperto di stracci. La mano destra era chiusa ad artiglio intorno ad un nodoso bastone coperto di polvere; anche i sandali, di ruvida corda intrecciata, che non portava   ai piedi,   ma attaccati al bastone, erano impolverati e
    così gli stracci e perfino la testa. 
    "Guarda quel merit. Guarda l'oggetto che ha in mano e che sta mostrando in giro con tanta circospezione."
    "E' una collana e mi pare molto preziosa."
    "Credi che nelle campagne da dove  è arrivato, le donne portino al collo collane come quella?"
    "Certo che no!"
    "Quel bifolco darà a me quella collana."
    Il Ratto  si fece avanti deciso. Giuntogli alle spalle, lo prese saldamente per un braccio; il contadino ebbe un sussulto.
    "Mostrami la tua collana." ordinò perentorio il piccolo Mosè.
    "La collana? Quale collana?"
    "Quella che tu stai nascondendo dentro la tua manaccia."
    Vistosi scoperto, il contadino tentò la fuga, ma senza fortuna.
    "L'hai rubata? A chi l'hai rubata?" domandò Djoser.
    "Non l'ho rubata."
    "Stai mentendo. Chiama la guardia, Mosè… subito…"
    "Non l'ho rubata, vi dico. – si spaventò quello - L'ho trovata. L’ho trovata per terra. Lo giuro nel nome di tutti gli Dei."
    "Basta così. Ti crediamo." si convinse Djoser e Mosè ne approfittò per mettere in atto i suoi propositi.
    "Non ti dispiacerà cederla, allora, a me in cambio di questi orecchini. Faranno la gioia della tua bella e ti eviteranno la verga della guardia.”
    "Prendila e dammi i tuoi orecchini."
    "Adesso sì, che hai fatto un buon guadagno. E anche lecito! - Mosè prese la collana e cedette  gli orecchini, poi a Djoser - Andiamo. Il ronzio di tutte queste voci è molestia per le mie orecchie."
    Lasciarono il mercato; il Ratto sogghignava soddisfatto.
    "Hai visto, amico, come si trasforma una collana di pietre in una
    collana  d'oro?" esclamò, agitando tutto orgoglioso anche la canna che gli era avanzata dallo scambio.
    "Sì, ma tu hai approfittato dell’ingenuità di quella gente!"
    "Ingenuità? La loro é stupidità ed ignoranza. - replicò convinto l'amico - Tanta stupidità ed ignoranza non deve andare sprecata, se può essere di qualche utilità a qualcuno."
    "A te? Non capisci che quello che dici non è giusto nè onesto!"
    "Davvero?  Se  questa collana fosse rimasta nelle mani di quel contadino, quello l’avrebbe venduta per una ciambella a qualcuno più furbo di lui! In questo modo, sono felici tutti: il contadino che, quando avrà mal di capo o di pancia per il troppo sole o troppo cibo, crederà che a farglielo passare saranno state le pietre della mia collana. Il venditore di sandali, quando si sazierà con del buon pane bianco ben cotto e il mercante di profumi, che tornerà a casa con un paio di sandali nuovi ai piedi. Sarà felice anche l'uomo delle canne, quando la fragranza di Babilonia gli guadagnerà le grazie della sua bella e così l'amata di quel merit, quando potrà ornarsi con orecchini degni di una regina... E sarà felice la tua principessa, quando le donerai questa collana."
    "La mia principessa?" stupì Djoser, che aveva seguito quel fiume di 

    L'UNICORNO

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    IL CAVALLO ALATO

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    C'ERA UNA VOLTA... 3200 anni fa

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    Nei tempi dei tempi che furono… iniziavano così le favole, un tempo… regnava in Egitto un Sovrano triste e sconsolato poiché non aveva figli. Tutti i giorni egli si recava al Tempio di Ammon a pregare affinché gliene mandasse uno.
    Finalmente il dio di Tebe si mosse a compassione e cedette alle preghiere. Ad una condizione:
    “Ti manderò un figlio. – disse – A patto che tu me lo restituisca all’età di diciotto anni.”
    Voleva dire che a 18 anni il principe sarebbe morto.
    “A prenderlo, - aggiunse – manderò un cane, un serpente o forse un coccodrillo.”
    Voleva dire che il ragazzo sarebbe morto per il morso di uno di questi tre animali.
    Il Re accettò.
    Nato il bambino, però, l’idea di vederlo morire così giovane divenne per lui inaccettabile.
    Che cosa fece, allora?
    Fece costruire una torre in mezzo al deserto, con una sola piccola porta d’entrata e una stanza con finestrella e lì fece crescere il piccolo, separato dal resto del mondo e sorvegliato dal più fedele dei servitori.
    Passarono dieci anni circa; il piccolo principe ignorava completamente le cose del mondo.
    Un mattino fu svegliato da un suono sconosciuto che l’attirò verso la finestra; vide una strana creatura che correva su e giù, sotto le mura.
    “Chi è quella creatura?” chiese al servitore.
    “E’ un puledro. – spiegò quegli – Fischia.”
    Il ragazzo fischiò, il puledro nitrì; da quel giorno, il puledro venne ogni giorno a galoppare sotto la finestra e i due divennero grandi amici.
    Passarono gli anni; arrivò il diciassettesimo.
    Un mattino, a svegliare il principe non fu solo il nitrito del suo amico cavallo, ma i nitriti di molti cavalli al galoppo e le voci di cavalieri in corsa.
    “Chi sono quelle persone? – domandò il ragazzo al servo – E quello splendido animale che corre davanti ai cavalli, chi è? Come si chiama?”
    “Sono cacciatori e quell’animale è un cane.”
    “Ne voglio uno.” ordinò il principe.
    Il servo, però, non poteva accontentarlo e si consigliò con il Re sul da farsi; alla fine, si decise di donargli un cucciolo, facendo attenzione che non lo mordesse e pensando di sostituirlo con un altro, appena fosse cresciuto.
    La vicinanza, però, e il reciproco rispetto, fecero nascere una profonda amicizia fra il cucciolo e il piccolo principe, tanto da vanificare il pericolo della profezia.
    Era così, che gli Antichi Egizi si spiegavano l’amicizia tra cane e uomo: l’incontro tra un cucciolo d’uomo e un cucciolo di cane!
    A questo punto, però, il ragazzo era cresciuto abbastanza da porsi delle domande sulla propria posizione. Mandò un messaggero dal Re.
    “Padre, - fece chiedere – perché mi tieni qui, prigioniero?”
    Il Re dovette metterlo a corrente del pericolo che incombeva su di lui, se avesse lasciato quel rifugio sicuro.
    Il principe rimandò indietro il messaggero:
    “Padre. - fece dire – Tu sei il Faraone e anche il Sovrano più potente del mondo, ma se Ammon, che è la Divinità più potente fra gli Dei, ha deciso che io debba morire, nulla potrà salvarmi dal mio destino. Lascia che io esca dalla mia prigione e concedimi di conoscere il mondo, prima che muoia per il morso di un serpente o di un coccodrillo. Il cane è diventato il mio miglior amico e non temo alcun danno da lui.” 
    Il Re cedette al desiderio del principe che con il servo, il cane e il puledro, cresciuto con lui, lasciò la torre e partì alla scoperta del mondo.
    Dove poteva andare nei pochi mesi di vita che gli restavano? Scelse  di conoscere Babilonia, prima di andare a Tebe, dove viveva suo padre.
    Babilonia la Grande, la Bella, l’Opulenta! Ne aveva sentito sempre parlare.
    La strada per Babilonia, però, si rivelò una vera delusione: era cosparsa di rovine, campi incolti, gente affamata e bande di malintenzionati.
    Fermarono un mendicante e chiesero:
    “E’ questa la via per Babilonia? Abbiamo, forse, sbagliato strada? Qui c’è solo miseria.”
    “Ahinoi! – esclamò quello – La nostra principessa è bella e virtuosa, ma è anche la nostra rovina.”
    “Com’è possibile? – stupì il principe – Una principessa bella e virtuosa non può essere la rovina del suo popolo.”
    “Oh, sì! E’ così bella, che da ogni parte del mondo arrivano principi per chiedere la sua mano. Si fanno guerra fra loro e quel che vedi, straniero, ne è il risultato.”
    (la morale è che gli A. Egizi non amavano la guerra e che i Faraoni Guerrieri non furono così numerosi)
    “Il vostro Sovrano non fa nulla per evitarlo?”
    “Certamente sì! Ha consultato il nostro Dio, Marduk, e il consiglio è stato di erigere una
    Torre e di rinchiudervi la principessa per darla in sposa a colui, fra i pretendenti, capace di scalare le mura.”
    “Non mi pare un’impresa difficile.” replicò il principe.
    “Quelle mura sono ricoperte di specchi e chiunque tenti di farlo, scivola giù ai primi tentativi e deve rinunciare all’impresa e andar via.”
    (arrampicarsi sugli specchi: è facile capire la morale di questo tratto della favola)
    Il principe volle tentare l’impresa.
    Sarà perché desideroso di compiere una grande impresa prima di morire, sarà perché qualche volta anche le imprese impossibili si realizzano… sarà perché siamo all’interno di una favola, ma il principe riuscì nell’impresa.
     

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    Alla principessa, però, dovette confessare che aveva solo pochi giorni di vita e non poteva sposarla, ma che era felice di aver salvato il suo Paese dall’invasione straniera.
    La principessa, però, volle diventare ugualmente la sua sposa e così, dopo la cerimonia nuziale, il principe si apprestò, in tutta fretta, a tornare a Tebe per presentare la sposa al padre.
    Durante il viaggio, la piccola carovana alzò le tende lungo le rive di un fiume. Guardie armate sorvegliavano affinché nessun coccodrillo o serpente si avvicinasse alla tenda del principe. Per di più, la principessa vegliava, mentre il principe dormiva e durante il giorno lo teneva occupato con un gioco che lui le aveva insegnato: il gioco della "senet".
    Verso l’alba, il cane cominciò ad agitarsi e la principessa vide un’orrida testa di serpente sbucare da sotto la tenda. Chiamò i servi, che uccisero il grosso rettile a bastonate.
    Il principe, intanto, continuava a dormire.
    “E’ quasi giorno. – si disse la principessa – I servi sono all’erta… nessun coccodrillo, ormai, potrebbe entrare qui dentro.”
    E così, stanca e assonnata, si addormentò. Proprio nel momento in cui stava svegliandosi il principe che, la guardò con tenerezza e pensò:
    “Ha vegliato per tutta la notte… lasciamola riposare.”
    Si alzò e lasciò la tenda, poi si portò in direzione del greto del fiume per bagnarsi il volto e gli occhi.
    Fu allora che la vide. Vide una creatura orrida e affascinante insieme, che esercitò su di lui, in egual misura, attrazione e repulsione.
    “Chi sei? – domandò – Come ti chiami? Che cosa fai qui?”
    La creatura rispose:
    “Sono il tuo Destino. Il mio nome è Coccodrillo e ti aspetto da diciotto anni.”
    Quel giorno il principe compiva diciotto anni, ma… la sorpresa sta proprio qui: non conosceremo mai il destino del principe poiché il papiro su cui è scritta questa favola è rotto e il pezzo mancante, con il finale, è ancora sepolto da qualche parte nella sabbia della necropoli di Deir-el-Medina, in Egitto, dove è stato rinvenuto, nella tomba di un ragazzo.

    E adesso, dite… non sembra una favola scritta oggi? Se non ci credete, andate al Museo de Il Cairo e troverete il papiro custodito in una bacheca.

     

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    IL PONY

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    Beatrice era una bimba che adorava gli animali.
    Nella sua bella casa di campagna ve n’erano almeno una mezza dozzina a cui era tanto affezionata e da cui era molto amata. C’era il coniglietto Tiffy, il gattino Miao, il cagnolino Fuffy, il passerotto Mussy e perfino una lentissima e simpaticissima tartaruga che Beatrice chiamava Piè-Veloce. Allo zoo mancava solo un cavallino e il papà glielo aveva promesso in regalo per Natale.
    Beatrice gli aveva già scelto il nome: Gitano, poiché era con il capo di una tribù di nomadi accampati vicino alla sua casa, che il papà stava discutendo sul prezzo.
    A Natale mancavano pochi giorni e Beatrice, con la mamma, era andata a comprare la sella per il suo pony. Vi aveva investito tutti i soldini del suo salvadanaio, ma era soddisfatta. Ogni tanto andava a prenderla, la provava e giocava, come se il pony fosse già lì, con lei.
    Arrivò la vigilia di Natale. Il papà si era recato al campo degli zingari. Si era appena allontanato, ma a Beatrice pareva fosse trascorsa un’eternità. Attaccata ai vetri della finestra, aspettava il suo arrivo e tempestava sua madre di “come e perché”
    Un nitrito in lontananza pose fine all’attesa e Beatrice poté finalmente vedere il pony tanto desiderato.
    Era tal quale il papà lo aveva descritto: tutto nero e con una grossa stella grigia fra gli occhi e camminava agile e svelto nella neve.
     

    “E’ proprio bello!” esclamò felice, scostando la tendina dai vetri ed indicandolo alla sua mamma.
    “E’ bellissimo. – sorrise la mamma – E’ bello e nero come la pece.”
    Insieme al papà, che agitava un braccio per attirare la loro attenzione, c’era un altro uomo; era lui a reggere le briglie del pony.
    “Chi è quell’uomo, mamma?” domandò Beatrice.
    “E’ lo zingaro che ha venduto il pony a papà.”
    “Perché è qui?”
    “Per prendere i suoi soldi.”
    “Ah!” fece la piccola rassicurata. Nel distogliere da lui lo sguardo, però, si accorse di un’altra presenza: un ragazzino che a malapena tentava di nascondersi dietro l’albero di pero del giardino, all’interno del cancello.
    “Hai visto, mamma? C’è un bambino che si nasconde dietro il pero. Deve aver seguito papà e quello zingaro.” disse Beatrice tendendo una mano.
    “Dov’è? – domandò la mamma – Non vedo nessuno.”
    “Là… dietro l’albero del pero.”
    La mamma guardò in quella direzione.
    “Oh, sì! Lo conosco. – esclamò – Conosco quel bambino. E’ il piccolo Christian.”
    “Chi è Christian?”
    “Il padroncino del pony. – spiegò la mamma – Certo gli dispiace averlo perduto e vorrà vederlo per l’ultima volta.”
    “Se gli dispiace tanto per il suo pony, perché lo ha venduto al mio papà?” replicò la piccola.
    “Gli zingari sono molto poveri e qualche volta sono costretti a vendere ciò che hanno… Papà dice che la mamma di Chistian è malata e necessita di cure… Forse Christian aveva solo il suo pony da vendere, per poter curare la sua mamma.”
    “Per questo ha venduto il pony, allora?”
    “Oh, sì, piccola mia! – sospirò la donna - Credo proprio di sì! Non tutti sono fortunati a questo mondo!”
    “Povero Christian!” Beatrice divenne seria e taciturna.

    “Beatrice, non vuoi provare la tua sella?” la raggiunse alle spalle la voce del papà che era salito di sopra e reggeva sulle braccia la sella  con le borchie dorate.
    “Sì, sì! Certo” rispose la ragazzina.
    Scesero in cortile. Papà sellò il pony e mamma l’aiutò a montare. Tenendo l’animale per le briglie, le fecero fare un giretto lungo tutto il cortile e Beatrice sorrideva. Anzi, rideva forte, felice e divertita, dimentica di ogni cosa.
    D’improvviso, però, zittì: il suo sguardo aveva incrociato quello del piccolo Christian, sempre nascosto dietro gli alberi del giardino. Le era parso che piangesse.
    “Torniamo in casa. – disse – Fa freddo.”

    Il mattino del giorno dopo, si svegliarono tutti di buon’ora. La mamma e il papà erano ansiosi di vedere ancora una volta il sorriso felice della loro figliola. La mamma, poi, doveva darle il suo regalo e non potevano essere che i finimenti per il pony: belli e riccamente lavorati.
    Raggiunsero la camera di Beatrice, certi che la piccola fosse già sveglia e non si stupirono nel trovarla vuota: Beatrice aveva sicuramente raggiunto il suo cavallino.
    “E’ già andata a trovare Gitano.” disse il papà.
    “E’ da così tanto tempo che desiderava un pony. – fece eco la mamma – Credo che abbia dormito poco, questa notte.”
    “Credo non abbia dormito affatto. Guarda il lettino: è disfatto, ma le lenzuola non sono state toccate. – osservò il papà poi, scorgendo l’espressione preoccupata della moglie – Sarà già nella stalla.” la rassicurò.
    “Andiamo subito a vedere.” disse la donna, gettandosi la vestaglia sulle spalle e dirigendosi frettolosa verso la porta d’ingresso.
    Trovarono la stalla vuota: Beatrice non c’era e neppure il pony e la mamma cominciò ad agitarsi.
    Corsero entrambi fuori della stalla e solo allora si accorsero delle numerose orme sulla neve: orme di un cavallino e di due piedini. Erano fresche; quelle del giorno precedente erano coperte e confuse dalla neve caduta durante la notte.
    Le seguirono.
    “Portano fuori del cortile.” osservò sempre più preoccupata la mamma.
    “Credo di sapere dove sono dirette.” disse il papà, ma anche la mamma aveva capito.
    “Sono dirette al campo degli zingari.” esclamò.
    Trovarono i gitani tutti riuniti intorno al carrozzone di Juan, il padre di Christian.
    “Non è colpa nostra, senor.- lo zingaro si staccò dal gruppo, andando incontro ai due visitatori – Non è colpa nostra… di nessuno di noi.” tentò di spiegare con larghi gesti, come di chi teme di essere accusato di una colpa non commessa.
    “E’ vero, papà!” anche Beatrice si allontanò dagli altri e raggiunse i genitori, che l’abbracciarono stretta; il papà si tolse la giacca da camera e con quella avvolse la sua bambina, coperta del solo pigiama.
    ”Ho riportato qui io Gitano. – riprese Beatrice -
    Non volevo che il giorno di Natale un altro bimbo 
    fosse infelice per causa mia.”
    “Vi restituirò il vostro dinero, senor. – riprese il gitano – Per guarire la mamma del mio Christian troverò dinero da qualche altra parte. La povera donna preferirebbe morire piuttosto che veder soffrire il suo ninyo.”
    “Tieni pure i soldi, Juan. – esclamò il papà di Beatrice scuotendo il capo – Consideralo il regalo della mia bambina al tuo bambino, affinché possa curare la sua mamma. Non è giusto togliere ad un bambino il suo amico più caro.”
    “Christian mi ha promesso che avrà sempre cura di Gitano e non gli farà mancare mai nulla.” interloquì Beatrice.
    “Ne sono convinta. – la mamma la baciò sulla guancia – Nessuno, nemmeno tu, bambina mia, potresti amarlo e curarlo meglio di Christian.”
    “Forse gli regalerò anche la sella.”
    Il papà scosse il capo:
    “Non sarà necessario, piccola. Ti comprerò un altro pony, ma non lo toglierò a nessun bambino”